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Sintesi dei papers

La leadership educativa e il concetto di “Inclusione”

Including Inclusion: Exploring inclusive education for school leadership
Dr. Gerry Mac Ruairc
School of Education, University College Dublin, Irlanda
2013
Articolo per seminario
Pagine: 13

L’articolo si occupa di approfondire il concetto di “inclusione” in riferimento all’ambito scolastico, muovendosi in una prospettiva fortemente filosofica e concettualmente complessa, che cerca di cogliere alla radice le ragioni delle difficoltà e degli ostacoli incontrati dalle pratiche di inclusione scolastica.

Gerry Mac Ruairc comincia con il presentare la genealogia del concetto di inclusione: la sua origine può essere rintracciata nell’ambito di discipline disparate, che per lo più risultano lontane dall’ambito educativo. Ciò ha fatto sì che una generale vaghezza aderisse al termine, tanto più che lo stesso concetto ha subito un’ulteriore diversificazione di significati al suo ingresso in campo educativo, poiché è stato applicato indifferentemente a contesti scolastici diversi per ambito nazionale, cultura e tradizione pedagogica.

In particolare, il concetto di inclusione è stato introdotto in campo scolastico per sostituire la nozione di “integrazione”, che veniva percepita come restrittiva e troppo limitata. Negli ultimi anni, la nozione di inclusione è stata quindi protagonista di una serie di dichiarazioni di principi: la “World Declaration on Education for All” (Dichiarazione mondiale sull’educazione per tutti -UNESCO,1990), il “Salamanca Statement and Framework for Action on Special Needs Education” (Dichiarazione di Salamanca e piano d’azione per i bisogni d’educazione speciale -UNESCO, 1994) e il “Dakar Framework for Action” (Piano d’azione di Dakar -UNESCO, 2000)

Tali dichiarazioni, tuttavia, hanno portato a risultati modesti nella pratica. Di ciò possono darsi due ragioni principali: la prima è che in generale la dimensione dell’inclusione si contrappone ad alcune tendenze che negli ultimi decenni sono risultate dominanti in ambito scolastico, che privilegiano la dimensione performativa e le pratiche strumentaliste del tipo “what works” (“ciò che funziona”, che produce risultati). La seconda è che fin dall’inizio la nozione di inclusione è stata associata all’ambito dei “bisogni di educazione speciali” (special education needs -SEN): ovvero si parla di inclusione soprattutto in riferimento ai ragazzi caratterizzati da deficit di apprendimento, e che quindi hanno bisogno di attenzioni particolari per poter partecipare al processo educativo.

Mac Ruairc mette in luce come non solo l’utilizzo del concetto di inclusione in riferimento ai SEN non ha portato nessun miglioramento sostanziale delle condizioni degli alunni con bisogni speciali, ma ha per di più offerto la sponda a diverse critiche rivolte al principio d’inclusione in quanto tale. Mac Ruairc passa in rassegna tali critiche, mostrando come tutte insistono sull’idea che il principio dell’inclusione può risultare dannoso in quanto sottrae risorse ai bambini “senza deficit” e di conseguenza è di ostacolo al loro apprendimento:

“L’esclusione di alcuni bambini dalle scuole di spicco è risultata legittima soprattutto grazie all’argomentazione che essi avrebbero un effetto potenzialmente negativo sulla maggioranza dei bambini che risultano nella norma” (p. 4)

Mac Ruairc propone quindi di espandere il concetto di inclusione, modificandolo alla radice, “approcciandolo dalla prospettiva e dalla politica della differenza piuttosto che da quella del deficit” (p.5), senza con ciò negare il fondamentale bisogno di risorse particolari per gli alunni caratterizzati da SEN. Una volta che il concetto di inclusione riguardasse anche gli alunni giudicati “migliori”, è difficile immaginare come “una scuola potrebbe voler sollevare un caso per l’impiego di risorse e ore di insegnamento addizionali per studenti di fascia A, disciplinati e dai buon risultati” (p.5). In questo senso, è precisamente il concetto di normalità che dovrebbe esplodere: il principio di inclusione deve essere percepito come pertinente alla totalità degli alunni -quando non esistesse una “normalità” di riferimento, tutti avrebbero bisogno di uno sforzo “supplementare” per essere “inclusi”. In questo modo, gli alunni con deficit non risulterebbero emarginati già in partenza. Mac Ruairc mette bene in luce come a tal riguardo è la mancanza di “un sistema scolastico che veda le differenti abilità e contesti di provenienza come una forza piuttosto che come uno spazio per generare forme molteplici di gerarchizzazione educativa” (p.5).

Nella seconda parte del testo, la stessa problematica è affrontata in chiave filosofica, dando vita ad un passaggio argomentativo che può essere considerato come il cuore dell’articolo.
Mac Ruairc mette in luce come il “termine inclusione implica un «portare dentro» e di conseguenza racchiude la presupposizione di un centro -un centro ideale o un luogo in cui valga la pena essere portati” (p.6). Il concetto di inclusione sottintende quindi l’idea di un centro, di una normalità in cui sia necessario entrare, e così facendo ratifica concettualmente i privilegi che a prima vista sembra mettere in discussione. Prosegue Mac Ruairc:

“E’ necessario rendere visibile una decostruzione del centro da cui le differenti forme di esclusione e le pratiche discriminanti derivano. Si può dire che l’educazione inclusiva porta la denaturalizzazione operata dalla normalità ad un grado zero da cui sia possibile bandire l’idealizzazione del centro” (p.6). Mac Ruairc prosegue quindi approfondendo attraverso riferimenti al pensiero di Derrida e di Foucault.

Ciononostante, vengono messe in evidenza anche le difficoltà di realizzare concretamente un tale cambiamento:

“Ciò che sarebbe necessario è una ricostruzione basilare del sistema scolastico e dell’intera società dal suo nucleo – e questo con ogni probabilità non succederà. In assenza di ciò, siamo lasciati con un’idea utopica la cui realizzabilità è dipende da svariate componenti problematiche” (p.7)

Mac Ruairc prende quindi in esame una serie di programmi e iniziative educative messi in pratica per sostenere gli studenti SEN, o gli alunni provenienti da minoranze etniche o da particolari classi sociali (No Child Left Behind -US; Every Child Matters -UK; DEIS -Ireland). Ma si è si tratta di iniziative per lo più votate al fallimento (che di fatto in diversi casi è stato documentato), proprio perché “miravano a realizzare un’apparenza di politiche e pratiche proattive ma lasciavano la causa/centro esente da sfide” (p.7-8).

Alla fine dell’articolo, compare la questione della leadership scolastica, che viene presa in esame rispetto alle questioni affrontate. Ciò coinvolge essenzialmente due questioni: “Quale leadership è richiesta e dove è richiesta” (p.9). Con riferimento alla seconda questione, Mac Ruairc mette subito in luce come “è ampiamente riconosciuto che le scuole da sole non possono risolvere i problemi che dipendono dalla società nel suo complesso. Ciò che è necessario è una leadership a livello collettivo/governativo impegnata a diffondere i valori di una società più equa” (p.9).

Per quanto riguarda invece la leadership scolastica nello specifico, non è possibile fornire un modello universalmente valido, ma possono essere delineate delle indicazioni soffermandosi sugli esempi negativi:

“E’ possibile approfondire la nostra conoscenza circa la maniera in cui la leadership funziona con conseguenze negative, per esempio sottolineando l’impatto di alcune pratiche, svolte al livello locale della scuola, che contribuiscono ai circuiti di esclusione messi in atto nei singoli contesti educativi -ovvero focalizzando l’attenzione su ciò che è stato a volte definito come il lato oscuro delle pratiche di leadership. In questo senso, aspetti particolari di tali pratiche possono essere messi in discussione grazie ad una conoscenza specifica, che può quindi contribuire a generare un migliore contesto per gli studenti.” (p. 9-10)

Per far capire meglio che cosa intenda con il riferimento a tali pratiche negative, Mac Ruairc fa l’esempio dei casi in cui “gli studenti sono divisi secondo livelli di abilità in classi differenziate, a volte in età molto giovane (8 o 9 anni in alcune scuole primarie disagiate), secondo procedure che richiedono anche una specifica azione a diversi livelli da parte della leadership scolastica” (p. 10).