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Biografie

Christopher Muscat

By 20 Luglio 2015Agosto 1st, 2015No Comments

muscatChristopher Muscat è docente di IRC  (Insegnamento della Religione Cattolica) presso l’IIS 8 marzo di Settimo Torinese. Di origine maltese, conversatore di lingua inglese e laureato  in teologia, all’interno della sua scuola si occupa anche di preparare  gli allievi alle varie certificazioni previste per la lingua anglosassone.
L’intervista qui sotto riportata è stata rilasciata nell’estate del 2014 alla redazione di ReteDialogues.it

Come sei arrivato sul progetto Face to Faith?
L’IRC è una materia molto libera che può avere delle grandi potenzialità in quanto consente ampi spazi di approfondimento e collegamento con altre discipline.  Per rendere le lezioni sempre più interessanti e coinvolgere i ragazzi, propongo anche attività che prevedono l’utilizzo della lingua  inglese, per dare un “valore aggiunto” alla materia. Utilizzo spesso internet per cercare non solo materiali  ma anche contatti con scuole e docenti stranieri. All’inizio dell’estate 2012 vengo a sapere dal sito MIUR che è stato firmato un protocollo con la Tony Blair Faith Foundation per il progetto FTF: ho cercato il sito in rete e inviato il modulo di richiesta di adesione. Nel giro di 24 ore mi arriva una telefonata “Sono Giovanna Barzanò, ispettrice del MIUR” … la cosa mi ha un po’ stupito, non mi aspettavo una reazione dai “piani alti”

Il problema è che nella fase iniziale del progetto, prima della Rete Dialogues, l’adesione a FTF per le scuole italiane è avvenuta “su invito” degli Uffici Scolastici Regionali, perché la novità per il nostro sistema scolastico era tale da prevedere una fase pilota sperimentale. Per cui la tua richiesta, arrivata tramite  Londra, ha colto tutti di sorpresa!
Infatti mi ci è voluto del tempo prima di essere accreditato, poter accedere ai materiali e cominciare a lavorare. Dopo ho capito che, per motivi di sicurezza delle migliaia di ragazzi iscritti alla web community, era necessario non solo accertare la mia identità ma anche verificare le mie motivazioni. Per fortuna a Torino stava nascendo una rete di scuole e ne sono entrato a far parte.

E ti sei subito lanciato nelle videoconferenze, coinvolgendo fin dal primo anno centinaia  allievi della tua scuola
Il primo anno ho lavorato con più colleghi su 7 classi,  riuscendo a fare 6  VC con 5 di loro: una purtroppo è stata annullata perché la scuola partner non era riuscita a collegarsi. In questo secondo anno dei problemi tecnici di connessione ci hanno bloccati fino a gennaio, ma sono state comunque 9 le classi coinvolte e abbiamo realizzato 10 VC

Come ti sei organizzato per gestire in prima persona così tante classi?
I miei allievi  sono molto interessati, si preparano con serietà. Avendo una sola ora settimanale per classe e non essendo sempre facile coinvolgere i colleghi di altre materie, svolgo gran parte del lavoro di preparazione da casa: tengo i contatti con i miei allievi tramite email e  facebook, ogni classe ha un suo gruppo sul social network. Cerco di far partecipare tutti i ragazzi della classe. Appena ricevo dal facilitatore la scaletta della VC, divido i compiti tra gli studenti:  quelli che padroneggiano meno la lingua inglese parlata preparano gli interventi per iscritto su argomenti standard (presentazione della scuola, della comunità, ecc) mentre gli studenti più disinvolti con la lingua si tengono pronti per affrontare gli argomenti specifici che abbiamo già trattato in classe e arricchire la conversazione con gli spunti che emergono man mano durante la VC. A volte chiedo a qualche collega di prestarmi un’ora, appena prima di una VC, per mettere a punto gli interventi.

Quali sono, secondo te, i punti di forti del progetto?
I ragazzi sono entusiasti: per prima cosa si rendono conto che ci sono in giro per il mondo dei giovani come loro. Si sfatano molti miti: per esempio, nei confronti  degli USA si è un po’ appannata l’immagine di paese “superiore” al nostro, in diverse VC i miei allievi hanno potuto toccato con mano la validità della loro preparazione e cultura personale. Viceversa, nei confronti di paesi meno noti a livello globale, come per esempio  Ucraina e Pakistan, c’è stato l’effetto opposto: hanno scoperto delle realtà giovanili vivaci e appassionate.  La VC è anche molto potente nell’abbattere pregiudizi e stereotipi: il fatto di vedersi oltre che di parlarsi, comunicare con il body language oltre che con le parole è molto efficace in questo senso.

Dove incontri le maggiori difficoltà?
Sicuramente nella comunità online. Nonostante io iscriva al sito FTF tutte le classi coinvolte nel progetto, gli allievi preferiscono incontrarsi fuori, su Facebook o altri social network. In generale è difficile dopo la VC proseguire il dialogo online: i forum che i moderatori aprono alla fine di ognuna di esse vanno quasi sempre disertati. E questo è un peccato, perché  incontrarsi solo in VC senza un follow up è un’esperienza che rimane come sospesa a metà.  Io chiedo sempre al contact teacher della scuola partner  i nomi dei ragazzi partecipanti alla VC, in modo che i miei possano cercarli sul sito e proseguire il dialogo, ma raramente mi sono stati dati. Alcuni professori americani hanno addotto motivazioni di privacy: con alcune colleghe donne del Sud Est asiatico ho invece avuto l’impressione che avessero difficoltà a rapportarsi con me, in quanto professore maschio. In ogni caso i ragazzi vanno stimolati e guidati nella partecipazione alla comunità online: l’ideale sarebbe avere un’equipe di colleghi che partecipano al progetto.  Potrei anche limitare il progetto a poche classi, ma mi spiacerebbe far perdere l’esperienza della VC a tanti allievi.

So che per te una valenza importante del progetto è anche l’utilizzo della lingua inglese, proprio come strumento per permettere ai giovani italiani di interagire di più e meglio col resto del mondo.
Sicuramente un progetto come FTF è un ottimo esempio di attività CLIL: i ragazzi oggi arrivano già abbastanza preparati sull’inglese dalla scuola media, nel nostro istituto offriamo anche la possibilità di conseguire le certificazioni PET, First ed Advanced.  In ogni caso presentiamo il progetto alla giornate di orientamento anche sotto questo punto di vista. Durante alcune VC l’inglese è più difficile da capire, anche per me: allora chiedo al moderatore di riassumere. Abbiamo avuto un’esperienza di VC multipoint per la giornata della donna, il relatore era una rabbina della comunità riformata ebraica londinese, che ha parlato molto a lungo, lasciando poco spazio ai quesiti dei ragazzi; inoltre in quell’occasione la scaletta di domande proposta prima della VC è stata poco seguita, causando ancora più difficoltà ai miei allievi.

C’è qualche commento che vuoi ancora fare sul progetto FTF?
In Italia purtroppo siamo restii a parlare di religione da un punto di vista culturale, si tende a vederla come una questione  privata che riguarda solo la dottrina e la fede.  FTF invece fa toccare con mano come la  religione sia un aspetto culturale e sociale molto importante.  Il cattolicesimo, nel bene e nel male,  è parte integrante della nostra cultura, ma  c’è pudore o imbarazzo ad esplicitare questa influenza, sia da parte di credenti che non credenti. FTF è interessante perchè ci obbliga a approfondire di più la nostra cultura dal punto di vista delle radici religiose. FTF potrebbe aiutare l’Italia ad aprirsi all’idea che la religione fa cultura ed è importante conoscerla e saperne leggere le influenze, al di là del credo personale: pensiamo solo alla scansione del calendario scolastico, o alla concezione del matrimonio  monogamico in Italia ed in tutto l’occidente. Personalmente, poi, ritengo la religione importante anche in quanto momento fondante per uno spirito di comunità. Per me la religione relegata solo alla sfera privata è la fine della religione.

 a cura di Maria Lissoni, della redazione ReteDialogues

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